Viaggio a Capracotta - 2007
di Isabella Carloni
All’arrivo mi accolgono i cavalli: puledri e adulti, dal mantello scuro, che emergono tra il verde di un paesaggio già mitologico.…e subito penso a Ovidio e mi viene da chiedermi se siano proprio cavalli quelli lì davanti, o non, forse, una famigliola sannita, trasformata dagli immortali per punire la fedeltà dei coniugi e il loro rifiuto, soprattutto di lei, di giacersi con gli dei.
Già…..”giacersi con gli dei”…chissà con questa espressione, gli antichi, quante “esperienze” del corpo avranno fatto! Risalgo in macchina e arrivo in paese. Antonio, l’anima e la vestale di tutte le iniziative di Capracotta, mi accoglie in una casa a due piani, dove si respira una tranquilla aria sibillina. Mi parla subito della tavola Osca; non afferro bene lì per lì di che si tratta, se non che è una iscrizione antica, che ha a che fare con quel luogo. Fino a che, qualche giorno dopo, non la vedo: non quella originale, che se mai devo aver vista – ma non notata – quando appena diciottenne visitavo il British Museum a Londra, no, quella gigante, riprodotta fedelmente sulla porta di bronzo fuori dal laboratorio della Fonderia Marinelli, ad Agnone, Isernia. I Marinelli! Loro si che sono i discendenti oschi di Mercurio: continuano a fondere bronzo per farne oggetti di culto, uno in particolare, a noi molto familiare: la campana, che come il calice è il più femminile degli oggetti della nostra liturgia cattolica (la quale, invece, tanto femminile non è!) E non è colpa dei Marinelli se ora tutto è regolato dalla Pontificia Sede, che di femminile, sia in forma che in merito, ha ormai proprio poco. E più che le campane dei vari papi, a me colpiscono le varie fasi artigianali di lavorazione della campana – affascinanti - e poi il laboratorio, il forno, il fosso tracciato per la colatura del metallo. Ma soprattutto quel momento della fuoruscita del bronzo fuso, che al grido di “Ave Maria!“ (già proprio lei la Madonna) scende, come la lava dal vulcano, lungo il canaletto scavato dagli operai, per arrivare a tuffarsi e a riempire, come una torta farcita, l’intercapedine fra i due calchi: un vuoto sottile riempito di fuoco bronzeo che poi, freddo, diventerà campana. Si, è tutta all’insegna dell’antica mitologia femminile questa estate a Capracotta! Anche Antonio, che pure è un uomo e ha un figlio grande, è molto attaccato alla sua genealogia femminile e anche al valore delle donne e a quello della cura, attribuita nei secoli solo alle donne. Il giorno che siamo andati a piedi a lavare al ruscello mentre lo fotografavo a strusciare i panni vedevo, fusi nella stessa immagine, un impavido esploratore con la barba e una efficiente lavandaia. Per la centrifuga dei panni sciacquati abbiamo improvvisato una danza dervisci con la retina che avevamo portato con noi: Antonio è pieno di fantasia e rende ogni attività da fare, anche la più semplice, una preziosa scoperta e un modo personale di dare il nostro ritmo al tempo, senza essere schiacciati dai doveri. Più tardi mi porta a visitare la sua casa di famiglia piena di oggetti e suppellettili che raccontano storie e quasi quasi riesco a respirare quell’aria matriarcale di cui mi parla, mentre ci perdiamo nel labirinto di scale ed ammezzati. Anche a casa dell’assessore qui a Capracotta a muovere il mondo sembrano le donne: arriviamo quasi all’ora di pranzo e sono tutte gentili e ospitali e Maria, la giovane assessore alla cultura del comune, mostra subito quel senso pratico di cui la nostra politica avrebbe un gran bisogno! Le spiego che sono qui per mostrare la mia versione teatrale del mito di Circe: uno spettacolo in forma di affabulazione che ruota tutto attorno al pensiero, antico e nuovo, del femminile. Con una coincidenza incredibile avevo scoperto alcuni mesi prima su INTERNET, che, per altre vie e con altre forme, anche Antonio si era occupato del libro della Yutta Voss, storica delle religioni e antropologa. La Voss era la stessa studiosa svizzera, che, con il suo libro “La luna nera”, aveva guidato la mia esplorazione teatrale sulla maga Circe, dove la scoperta della sacralità antica del maiale si legava a quella del sangue femminile e alle scomparse dee della luna nera. “Scomparse?!” Maria, lì davanti a noi, con la camicia colorata dal disegno rotondo, a metà tra un mandala e il ricordo di una coda di pavone, sorride e ci invita a pranzo. Non è il caso: io e Antonio abbiamo tante cose da fare e io vorrei pure trovare un’oretta per un’altra prova di memoria, prima di mangiare. Più tardi, a tavola mentre mangio con i nuovi ospiti arrivati a Capracotta per le iniziative della rassegna di quest’anno, tutta dedicata alle religioni antiche del maiale e delle gorgoni, penso che nelle antiche religioni della rinascita e del ciclo vita-morte-vita, di cui racconto nel mio viaggio teatrale su Circe, c’è come un eco della tavola Osca. E’ come se i Sanniti mi avessero richiamato quassù. La tavola Osca parla del culto a Cerere, alla dea delle messi, alle religioni naturali: l’antica codificazione di una cultura naturale e metamorfica, di cui Circe è rappresentante. Il giorno dopo cammino per le strade del paese come Iride, la messaggera degli dei: mi immagino che gli abitanti di Capracotta, sia quelli che ci stanno sempre, sia quelli che ci tornano d’estate – puoi riconoscere gli uni dagli altri, perché coi secondi hai uno scambio intellettuale, coi primi invece basta uno sguardo silenzioso per condividere tutto un pensiero – bé immagino che tutti avvertano che sono lì per portare un messaggio, per riaccendere quella memoria ancestrale del femminile, che, mai sopita, alimenta il nostro mondo profondo, nascosto, inconscio e impercettibile. La prima notte a Capracotta avevo sognato di un cinghiale……..poi di nuovo quel mare in tempesta che sale minaccioso e invade le terre… Due giorni dopo, mentre cerchiamo alcuni reperti per una mostra sul maiale, Antonio mi fa conoscere Salvo, un boscaiolo. Ecco quando lo vedo capisco che la nostra specie ha dovuto pagare un alto prezzo per avere computer e aereoplani. Salvo è un omone giovane e forte, sanguigno: ma soprattutto è un uomo antico: forte come una roccia, vicino a lui si sente la stessa energia che circola attorno agli ulivi della valle d’Itria, o vicino alla culla di un bambino. Mi attrae e mi spaventa per la sua forza e la sua innocenza barbara. Ci racconta della caccia al cinghiale, della sua durezza, della fatica. Ci racconta di averne catturati a volte anche da solo: gli credo, lo vedo capace, e per la prima volta, nonostante il pensiero di quei labirinti verdi che sembrano giardinetti curati, e invece sono fatti ad hoc per attirare i cinghiali in un tranello, mi riappacifico con un cacciatore. Vedo con quanto amore, anche se rude, parla di quella testa di cinghiale, di quelle zanne, di quel pelo duro, di quegli occhi vivi di animale. E come S. Francesco, prima di salutarci, indicandoci un albero cinguettante, ci parla degli uccelli, che sono scappati dai boschi, perché i cinghiali son diventati troppi, visto che i loro predatori non ci sono più, e la catena si è squilibrata. Così tordi e storni, rondini e passerotti, si avvicinano alle case, agli uomini, temono meno da loro che dai boschi, infestati da cinghiali. Salvo conosce bene il bosco e il suo è un pensiero pratico e schietto: parla di equilibrio naturale senza ideologie. Squilla il telefono e anche Salvo si intenerisce, orgoglioso, parlando con sua figlia, una giovanissima infermiera che ha già girato il mondo, anche come volontaria (buon sangue non mente, penso io) e, guarda le coincidenze, vive nel paese dei miei genitori e suo padre mi ci fa parlare. Il giorno dopo Cerere è con noi e brillano tra i raggi di sole mille tavolette osche: i campi, freschi di mietitura, hanno partorito infinite balle di grano. Il colpo d’occhio lungo il lieve pendio è da istallazione di museo d’arte contemporanea. Tra quei rotoloni giganti verrebbe voglia di allestire uno spettacolo, grande e maestoso, con il cielo per graticcio, da cui, a notte, calare le stelle. Ma mi accontento di abbracciarlo, il grano e mi distendo a pancia in giù sopra la balla rotonda, come attorno alla mia tata ciccia, da bambina e lascio che l’odore delle spighe penetri la pelle…fino a che la gioia si scioglie in un canto, che regalo ai miei compagni di viaggio e a tutto il campo. Laggiù in fondo alla collina, lontano, c’è la casa: quella delle due sibille che Antonio ci vuol far conoscere. Nella passeggiata di tutto un giorno, senza tempo, né rumori, né automezzi, la sosta è come quelle stazioni da pellegrinaggio, che rifocillano l’anima più ancora che il corpo. Due anziane signore vivono sole, laggiù, con un pollaio, una piccola stalla e campi intorno: vendono uova, latte, formaggio e, ogni tanto, quando non possono farne a meno, un vitellino da latte. In casa l’odore della carne che cuoce per cena – sebbene il sole sia ancora alto – si mescola a un buon odore di fermentato: solo dopo alcuni minuti mi accorgo che dietro di me riposa in una gerla quella parte di latte che, come un baco da seta, lavora al suo mutamento. Sul soffitto le forme appese di caciocavallo gli indicano la strada, come stelle comete. Quando, dopo due ore, raggiungiamo l’asfalto, avverto ancora il rossore sulle guance, del momento in cui ho chiesto….. un bagno: la più giovane delle donne, la figlia, più che settantenne, mi ha indicato il campo, l’aperto e mentre mi accovacciavo dietro casa per “cambiare la mia acqua” pensavo a Rilke, alle sue elegie e allo sguardo degli animali. Il giorno dopo Antonio propone un picnic alla fonte sulfurea: per fortuna non ho il costume, così posso ravanare fra la vecchia biancheria di casa, pulita e profumata, dove trovo un paio di mutandone di lino pesante, rifinite al giornino, su cui le mie cosce, più tardi alla fonte, faranno bella figura, molto più che sotto bikini alla moda. La fonte è lontana, nascosta nel bosco, e i fili bianchi che colorano l’acqua, rendono la pelle tonica e pulita. Quando con Mery cominciamo a inerpicarci, a piedi nudi, verso l’origine della fonte, ritrovo intatta la mia natura capricornina di arrampicatrice, e che gioia quando arriviamo lassù in alto alla piccola sorgente, che è nascosta dentro un cratere di pietra, come lava trasparente in un vulcano bianco e levigato. Il sole ci riscalda dai brividi di quell’acqua gelata e rimettersi le scarpe giù in basso al ruscello, per riprendere la marcia, sarà come incartare il mondo. La strada del ritorno è cambiata, ci dice Antonio, mentre raccolgo ciuffi di coda cavallina. Dopo un po’ infatti siamo costretti a seguire un tracciato grande e polveroso, una ferita nel bosco che chiameranno strada. Il giorno dello spettacolo arriva presto: carico sulla macchina una bella sedia rossa che ho trovato a casa di Antonio e salgo nella parte alta del paese, verso la chiesa: là vicino, ho adocchiato, qualche giorno prima, una minuscola piazzetta in fondo a un vialetto a scale, tra le case, che gli abitanti che vi si affacciano sembrano contenti di cedermi per un’ora come palcoscenico. Le quinte saranno i muri delle loro case e ogni oggetto, lì intorno, diventa un mio elemento scenico, da far entrare nel racconto, nelle mie storie, dentro le scene. Quando scarico la sedia dall’auto una frotta di bambini mi segue incuriosita, come avessi il flauto magico, poi mi aiutano, sistemano e qualcuno si piazza seduto proprio in mezzo a quello che dovrebbe essere il palcoscenico. Spiego loro dove sarà lo spazio scenico, dove mi muoverò io e dove si metterà il pubblico, lì sugli scalini che portano alla piazzetta: allora vanno lì a sedersi, dal più piccolo al più grande: non se ne andranno più, mentre io comincio a preoccuparmi di come potrò gestire i più piccoli durante lo spettacolo, sola in scena, senza rete! né musica o luci. Ma Cerere e le divinità osche sono con me (o forse io divento Cerere): tutti sono incollati alle mie labbra e mi seguono con interesse mentre passo da Omero a Pavese, da un quadro a una favola, dal buffo al misterioso e parlo delle Scritture e dei maiali, di Ulisse e delle Sirene, di Circe e dell’amore, di Maddalena e del sangue delle donne, e quando comincio a cantare si avvicinano anche le anziane signore che tornano dalla Messa. Il prete però, anche se l’ho invitato, non viene. Ma la serata non finisce certo con i complimenti. Di corsa ci spostiamo in un palazzo del centro a vedere come ancora si ammazza il maiale, in campagna: questa volta ritroviamo sul video quel racconto che poco prima, nello spettacolo, avevo fatto “solo” immaginare! Con un’altra lingua, quella del cinema di Dino Viani attraversiamo altri sentieri di poesia, in bianco e nero: un mondo sincero, ci riporta in una campagna dove uomini e donne, bestie e paesaggio, hanno ancora un ritmo comune. Poi la sera, a casa di Antonio, mangiamo prelibatezze semplici e genuine, preparate con cura e attenzione e la torta è una testa di Gorgone. Come quella di bronzo che porto al collo: dono simbolico e prezioso che mi brilla in petto come un sole-femmina! torna a inizio pagina... |