VIVERE CON CURA A CAPRACOTTA
Un’esperienza su cui riflettere per la rinascita dei paesi e territori di montagna. di Antonio D'Andrea
Scuola-Laboratorio di vita ecologica, arti domestiche, artigianato tradizionale e nuovo, arte-terapia, pratiche e cure naturali,
tecnologie appropriate, storia e antropologia. Gli albori di Vivere con cura a Milano Nel 1987, dall’incontro e dalla successiva collaborazione tra il gruppo di Legambiente di Milano e quello del Movimento degli Uomini Casalinghi (di cui faccio tuttora parte), era nata la proposta di organizzare incontri sia per denunciare e contrastare l’inquinamento crescente e le devastazioni ambientali e sia, soprattutto, per divulgare culture, pratiche e stili di vita ecologici. Chiamammo “Vivere con cura” sia il gruppo promotore che i program- mi che avremmo proposto, facendo nostro il pensiero di Carla Lonzi, che invitava non semplicemente a vivere, ma a vivere con cura se si vuole veramente essere in sintonia con se stesse/i, le altre/i e la natura. La modalità scelta fu quella di organizzare cicli di conferenze, con dibattito e discussione a seguire, strut- turati in calendari della durata di circa tre mesi con incontri settimanali o quindicinali da tenersi verso sera o dopo cena, per permettere una più larga partecipazione. E con ingresso gratuito. Le conferenze erano tenute da esperte/i che da anni ormai facevano ricerca, o come docenti universitari, o come amanti del sano vivere che sperimentavano in prima persona gesti e pratiche “sostenibili” e possibilmente a “impatto zero” sull’ambiente, in tutti i campi dell’agire umano. A partire dall’economia domestica e dai gesti quotidiani - appunto di cura - che riguardano tutti, e riflettendo sul dato di fatto inequivocabile che la società in cui viviamo esalta il momento della produzione di serie - sia essa per il mercato che per il sociale - e del consumo, ignorando, banalizzando, disprezzando (o addirittura a danno) il momento della cura, relegata da circa 5000 anni solo alle donne, per una presunta inferiorità e incapacità esistenziale a creare e progettare, prerogative del “genio” maschile. Ma dalla fine degli anni ‘60, le donne sempre più hanno rifiutato il ruolo di angeli del focolare per scoprire e costruirsi un’altra identità, vita ed esistenza. La risposta della grande industria è stata l’immissione massiccia degli elettrodomestici, del macchinismo industriale e di sostanze chimiche. Per cui, mentre si cercava di divulgare le ultime ricerche su una coerente pratica di vita ecologica quotidiana, a partire dai piccoli gesti, ci si interrogava sul senso dei lavori di cura e sulla differenza sessuale e i possibili sbocchi che potevano nascere. Gli anni del consolidamento Il primo periodo di Vivere con cura a Milano è durato sei anni, durante i quali, per circa sette-otto mesi l’anno, presso il centro di quartiere “Il Ponte delle Gabelle”, grazie all’impegno generoso e intelligente della responsabile, Graziella (originaria della Sicilia e figlia di una sapiente madre “tuttofare”), sono passate decine di esperte/i toccando sostanzialmente tutti gli argomenti possibili. In particolare soffermandoci sui temi fondamentali dell’alimentazione e agricoltura biologica, erboristeria e medicine naturali, massaggi e ginnastiche dolci, cosmesi e bioarchitettura. Buona la partecipazione (con una media di cinquanta presenze a incontro), ma soprattutto sono nate tante prese di coscienza individuali e di gruppo, amicizie e collaborazioni, gruppi di studio, e per qualcuno anche l’inizio di nuovi lavori o lo spostarsi a vivere in campagna o montagna. In quei sei anni, abbiamo verificato quanto sia importante un’acculturazione di massa concreta sui temi ecologici, sia per realizzare reali cambiamenti, sia per creare una rete di vita ecologica, perché da soli si può fare troppo poco. Per me, personalmente, fu un periodo di grande arricchimento umano e culturale perché di solito i professori, i docenti e gli appassionati della natura frequentano ambienti “ristretti”, invece con le conferenze popolari davamo la possibilità di aprirsi - e confrontarsi in modo anche polemico - a un pubblico eterogeneo, o meglio come si diceva al popolo, il vero motore della storia e dei cambiamenti. Dopo la verifica e il consolidamento di quei primi sei anni, ci sono state: la diffusione di programmi anche in altre realtà; la nascita di un gruppo di acquisto di prodotti biologici direttamente dai produttori (con benefici reciproci), che annaspano per via della globalizzazione; l’organizzare campi di vacanze ecologiche presso agriturismi autentici, in cui cioè realmente si sperimenta la vita naturale, e anche in paesi in via di abbandono; la pubblicazione del libro “Vivere con Cura” e dibattiti e polemiche con le altre associazioni ambientaliste che ci criticavano di fare troppo poco e di essere troppo legati al passato. La nascita di Vivere con cura a Capracotta Nell’autunno del 2002, l’allora assessora alla cultura del comune di Capracotta, Patrizia Rainone, mi chiese (e pose la domanda a tutti gli emigrati) se avessi delle proposte da dare per contribuire alla “rinascita” dell’amato paese e territorio di Capracotta, che, come molti - se non tutti - comuni montani, soffre del fenomeno dello spopolamento e del disfacimento, ormai quasi allo stadio finale, dello storico tessuto sociale, e con una crisi d’identità culturale ed esistenziale, soprattutto come prodotto della globalizzazione forzata delle multinazionali e dei miti sempre più accentuati del consumismo, dell’urbanizzazione, del progresso a tutti i costi e del gigantismo a tutti i livelli. Condannando a morte quei tesori umani, naturali e culturali che sono i piccoli comuni montani, forse gli ultimi baluardi di resistenza e base per una possibile vita bella e degna di questo nome. A Patrizia risposi che da molti anni a Milano - dove mi ero trasferito con la famiglia dall’età di un anno e mezzo, con la prospettiva di un futuro “radioso”, di “emanci- pazione” dalla natura selvaggia e dura - collaboravo all’organizzazione degli incontri di Vivere con Cura e che ormai conoscevo oltre cento esperte/i (che considero mie maestre/i) in tutti i campi della cultura ecologista e delle sue varie correnti (quella più scientista, quella spiritua- lista, quella radicale-intransigente, ecc.) e che avremmo potuto promuovere a Capracotta, e possibilmente in tutto l’Alto Molise, per affinità di territorio e problematiche, una specie di scuola popolare sui saperi pratici, locali e non, relativi a una vita coerentemente sana ed ecologica, perché al giorno d’oggi è quasi ridicolo parlare di vita ecologica in città, anche se fai la raccolta differenziata, compri i prodotti bio (falsi o semi-falsi) al supermercato, usi il tram, ecc. E aggiungevo che Capracotta e l’Alto Molise, come tante zone ormai “marginali”, paradossalmente grazie allo spopolamento e alla mancanza di concentrazione di attività produttive ha un ambiente ancora quasi intatto con boschi, montagne verdi, acqua buona, aria impareggiabile uniti alla bellezza del luogo e alla proverbiale ospitalità e calore umano (penso per esempio ai fratelli Fiadino). Patrizia acconsentì all’esperimento, e ragionando con lei e le/gli animatori (soprattutto di Milano) con cui ero in stretto rapporto, organizzammo il primo ciclo di Vivere con Cura a Capracotta (nel nostro archivio è possibile visionare i programmi), con queste differenze rispetto agli incontri di Milano: mentre in città erano strutturati solo come conferenze (e quasi non poteva essere diversamen- te), a Capracotta, lontano dalle grandi città, pensavamo a incontri strutturati come corsi-laboratori della durata minima di una settimana, con almeno tre ore di “lezione” pratico-teorica al giorno, dal lunedì al sabato, con esposizione o saggio finale la domenica. Un’occasione diversa per imparare Il termine “corso-laboratorio” vuol significare sia trasmettere nel concreto il sapere da parte dell’esperta/o, sia possibilmente attivare, attualizzando e innovando sui saperi già dati, un laboratorio sperimentale, facendo in altre parole ricerca, unendo saperi accademici-cittadini con quelli locali e con i vissuti delle singole persone partecipanti, realizzando tutto questo all’interno del paese-territorio con i suoi abitanti (soprattutto con le/gli anziane/i, che sono le/i vere/i maestre/i di vita ecologica, con i loro preziosi racconti di fatti, memorie e testimonianze), animali, vegetali e minerali. Una scuola totale, insomma, privilegiando gli incontri all’aperto, sotto la chioma e l’ombra di un albero, oppure in piazza, o durante una camminata, o alla villa, o presso una sorgente, o all’orto botanico; dando quindi molta importanza alla sensibilità, all’emotività, all’intervento diretto o indiretto delle forze della natura che non solo non disturbano ma permettono un apprendimento complessivo e più efficace del sapere da trasmettere. Anche perché tutte le esperte/i si rifanno alla cultura e didattica non solo ecologista ma anche nonviolenta e quindi, tranne rari casi, è un piacere enorme partecipare da studenti, senza barriere di età, credi religiosi, colori politici o della pelle e senza limiti di tempo (la famigerata campanella scolastica che interrompeva, il più delle volte, le belle discussioni che nascevano). Autoeducazione permanente e conviviale Questo modo di fare ed essere scuola ha profonde radici, anche se purtroppo poco conosciute e riconosciute. Per esempio la scuola di Don Lorenzo Milani a Barbiana, nel Mugello, per l’emancipazione dei figli di contadini e operai; oppure le università popolari in Argentina promosse dalle Madres de Plaza de Mayo per resistere alla dittatura militare dal 1976 al 1983; oppure la scuola di Ipazia, in Alessandria d’Egitto, nel IV sec. d.C., considerata la più grande matematica e scienziata dell’antichità, che oltre a insegnare ai suoi studenti, teneva lezioni per strada e anche per questo fu perseguitata e massacrata dal fondamentalismo religioso. Così come fu uccisa Meena, una ventina di anni fa, un’insegnante afghana che con altre promuoveva corsi di alfabetizzazione tra le donne sotto il regime dei Talebani. Ma forse l’esempio più significativo è quello del Tiaso di Saffo (600 a.C.), la poetessa, con la sua scuola per ragazze in Grecia, ove si trasmetteva tutto il sapere pratico femminile in modo interdisciplinare si direbbe oggi, in quanto si univano gli aspetti della cura e produzione quotidiana agli aspetti artistici in stretto rapporto con la natura, insieme alle buone maniere e alla cura del corpo, fondendoli con la musica, il canto, la danza e la poesia (molte delle sue composizioni furono distrutte dai fondamentalisti religiosi), oltre alla riflessione sulla gestione dei sentimenti, vissuti come elevazione sia personale che relazionale, in particolare l’amore, che chiamava “la bestia dolce-amara” (perché occorre saggezza nel saperlo vivere), insegnamenti in contrasto con i miti bellici della società militarista che ormai si era instaurata in Grecia e il teatro greco è lo specchio del passaggio dalle antiche e pacifiche società conviviali dell’antica Europa a quelle violente indoeuropee. Pastorizia transumante, l’economia del bosco, artigianato e grande economia domestica Uno degli aspetti degli incontri di Vivere con Cura a Capracotta (come in qualsiasi altro contesto) è che bisogna partire dal riconoscimento di quanto nel passato, remoto e/o recente, è stato fatto sia per la salvaguardia della natura che per quanto riguarda uno stile di vita sostenibile per l’ambiente, utilizzando i doni che offre la natura e il territorio del luogo. La vita e l’economia di Capracotta, posta a 1421 m sul mare, è ruotata per molti secoli sulla pastorizia transumante (fenomeno straordinario da un punto di vista ecologico e umano), l’industria boschiva (con lunghi periodi di vita nei boschi, quasi come gli Indios, quindi un altro fenomeno da riscoprire e rileggere), l’artigianato e una sapiente e ricca economia domestica (per esempio il fatto che ogni nucleo familiare avesse una capra, pascolata assieme alle altre, che soddisfaceva una parte del fabbisogno alimentare di alto valore biologico; così come l’avere un orto o della terra da coltivare; fare il pane, ecc.) gestita dalle donne di Capracotta (e su questo tema, a differenza degli studi sulla transumanza e l’industria boschiva, non ci sono ricerche e riflessioni, e il desiderio è di attivarle) che permetteva una qualità della vita notevole soprattutto in termini di convivialità e mutuo sostegno e soccorso, nonostante la durezza delle condizioni di vita e le disuguaglianze sociali. La cellula di quella economia era la famiglia patriarcale allargata. Secondo l’antropologa Michela Zucca, venuta più volte dal 2003 a Capracotta a tenere incontri per Vivere con Cura, il declino della montagna con relativo spopolamento, è dato dall’insieme di due fattori: l’avanzare dell’economia di mercato globale in montagna, che ha reso non più redditizie quelle attività, e il rifiuto di donne e giovani di sottostare all’autoritarismo patriarcale, preferendo l’emigrazione e il matrimonio e la famiglia nucleare in città. La ricetta di Michela Zucca è nel riconoscere la centralità delle donne con i loro saperi e percorsi esistenziali in libertà, perché sono le donne che fanno società e civiltà. Anche su questi temi continua la ricerca attuale di Vivere con Cura a Capracotta. Lucia di Milione, la signora dei boschi Nel 2003, alla nascita del primo programma di Vivere con Cura a Capracotta, abbiamo dedicato il circolo promotore a Irene e Lucia di Milione, forse l’esempio più significativo per quanto riguarda la possibilità di vita in montagna senza inquinare ed essere felici. Perché questo è il grande gioco: costruire possibilità di lavoro e reddito non solo in armonia con la natura, ma con grande passione e gioia. Ebbene la vicenda di Lucia di Milione e di sua sorella Irene, secondo me è quella che più deve far riflettere. Tutti a Capracotta ricordano Lucia De Renzis, chiamata Lucia di Milione perché il padre, Emilio, era un omone e quindi Emilione, in dialetto Milione o meglio Mglion; non passava inosservata, era una forza della natura (senza nulla togliere a tutte le altre abitanti di Capracotta). Personalmente da anni sto lavorando a un libro su di lei per cogliere bene la grandezza del suo esempio di vita. Per non dilungarmi dico che lei, da giovane, per sostenere economicamente la famiglia caduta in ristrettezze per via della malattia di Emilione, si inventa il lavoro di raccoglitrice per i boschi e i campi di Capracotta. Molte/i o quasi tutti vivevano con l’arte - personalmente la considero una scienza divina - di raccogliere ciò che la natura ci dona (a differenza dell’agricoltura, per esempio): legna, erbe selvatiche, frutti di bosco, funghi; ma era praticata per uso familiare e come integrazione al reddito. Per lei diventerà invece il lavoro della sua vita. Tempo e stagione permettendo, partiva al mattino e tornava in paese prima di sera, sempre a piedi, carica di ciò che aveva trovato e raccolto. Ricordo che quando entrava in paese era ornata di mazzi di erbe (cassell, vocca rusc…) e quant’altro, portando a bella vista i doni e i profumi del bosco, una meraviglia che vendeva per poche lire, unite ai racconti di ciò che le era accaduto o aveva visto, perché nel bosco è sempre un’avventura continua, almeno se hai occhi, cuore e testa per viverli. Viveva con la sorella che faceva saltuari lavori di bracciante e altri lavori precari. Hanno entrambe vissuto oltre gli ottant’anni. Vivendo nei boschi e all’aria aperta aveva preso le caratteristiche delle forze della natura: fierezza, forza, coraggio, accettazione, amore per il mondo… e sprizzava una vitalità incontenibile. La figura della raccoglitrice è la figura forse più ecologica che ci sia. È il mestiere più antico, insieme alla caccia che però integrava la dieta e allora non era squilibrante, né praticata come sport, ma come necessaria. Mammaletta, maestra nell’arte di ammacunà Altra figura di riferimento, a cui personalmente dedico una settimana l’anno è mia nonna Antonietta, chiamata Mammaletta, vissuta da fine Ottocento fino al 1945. Di lei mia madre, Peppina, mi racconta che era maestra nell’arte di ammacunà. Solo da mia madre sono venuto a conoscenza di questa parola, caduta in disuso come tante altre, insieme al dialetto (e un altro desiderio è di rilanciarne l’uso, iniziando con una settimana di Vivere con Cura). Mammaletta gestiva una pensione, di fianco al municipio di Capracotta. A pianterreno c’era il laboratorio-scuola di sartoria di mio nonno Loreto, con sempre almeno sette-otto giovani che andavano a imparare il mestiere in cambio di lavoro. Nei due piani superiori c’erano due camere adibite a pensione e il salone dove si mangiava. L’abilità, la sapienza e l’amore di mia nonna con l’aiuto delle sei figlie/i, in particolare di mia madre Peppina, permetteva che tutto andasse per il meglio, accogliendo spesso parenti o conoscenti che cadevano in disgrazia e coinvolgendoli nelle mille produzioni e cure domestiche. In sostanza, nonostante circolasse poco denaro, attorno alle due attività di scuola-sartoria e piccola pensione si costruiva una vita decorosa, viva e gioiosa e a dimensione umana: era una specie di alveare attorno alla figura di mia nonna che fungeva da ape regina. E il miele è il prodotto dell’armonia stupefacente che si crea tra le api e tra le api e i fiori. Così come il buon andamento, l’equilibrio tra le esigenze delle attività e quelle della famiglia allargata, con mille attenzioni particolari e stimoli culturali perché gli ospiti annuali erano insegnanti e ostetriche che trasmettevano i loro saperi “per osmosi” a tutti gli abitanti della casa-pensione (in media 20-25 persone di ogni età); erano il frutto di quell’arte, anche questa secondo me divina, di relazionarsi e di costruire, giorno dopo giorno, tra le mille difficoltà e penurie, una vita appagante, bella, aperta al meraviglioso. Credo che a Capracotta ci siano state e ci sono molte altre storie di donne eccezionali come Mammaletta. Vivere con Cura a Capracotta dovrebbe riprendere quei saperi di Lucia e Irene, di Mammaletta, delle altre donne e anche dei pastori, boscaioli e artigiani, continuando il cammino; invece gli ideologi del “modernismo” li hanno bollati come superati, e li hanno condannati a sparire o a nascondersi nei musei, tacciando di idealismo romantico chi vuole (come gli aderenti al movimento eco-pacifista) non solo restituire loro valore esistenziale e culturale ma, e questo è il punto, farli dialogare con i saperi delle tante altre realtà simili nel mondo - cioè la globalizzazione dei popoli - e anche con le moderne scoperte e innovazioni scientifiche, in modo da coniugare possibilità di lavoro e reddito in montagna in armonia con la natura, e rapporti di collaborazione (e non più di dominio e sottomissione) tra i sessi. Antichi e nuovi Sanniti Un altro aspetto fondamentale di Vivere con Cura, oltre alla rivisitazione dell’economia e vita sociale-conviviale a Capracotta negli ultimi due secoli, è il rilanciare gli studi e ricerche esperienziali, cioè non più nel chiuso dei circoli intellettuali, sul popolo Sannita (o meglio ancora Safini, che era il nome autoctono, mentre Sanniti era il nome dato dagli antichi Romani), che viveva anche nell’Alto Molise; dalla scoperta della tavola Osca emerge che per la bellezza e salubrità del posto questi era considerato, come d’altronde un po’ tutti i territori montani, una zona sacra o almeno quella principale dei Sanniti, tanto che c’erano ben quattro siti religiosi con al centro il culto per la Dea Kerres (la Cerere romana, la Demetra greca) e per altre divinità prevalentemente femminili che incarnavano i cicli e i doni della natura, con molti riti di ringraziamento e propiziatori. Quindi l’Alto Molise, come un po’ tutto l’entroterra appenninico e alpino, sempre secondo Michela Zucca, ha resistito maggiormente alle invasioni indoeuropee prima e dell’impero romano poi, conservando credenze, riti e culture arcaiche che per una serie di motivi giungono ancora a noi, e che possono essere attuali e attualizzabili; per esempio l’amore e il rispetto che avevano per la natura e il mondo femminile, attuali più che mai visto gli scempi ecologici e la violenza sessuata verso le donne. La memoria fertile, il vero sponsor Uno dei problemi di Vivere con Cura è il finanziamento dei programmi. Mentre a Milano gli esperti venivano gratuitamente, tranne rari casi, qui invece per il soggiorno, il viaggio e per alcuni anche un gettone di presenza, oltre che per pagare i costi delle locandine dei programmi annuali, le riviste che facciamo dal 2004 - chiamate anch’esse “Vivere con Cura” - e le tante altre piccole spese, c’è il problema del reperimento dei fondi. Abbiamo calcolato che per ogni anno di attuazione del programma occorrono circa 4000 euro, facendo tutto con la massima sobrietà e cercando di riattivare la vita eco-conviviale; metà li ha messi il Comune, ma gli altri duemila? La soluzione che di solito si dà è il cercare gli sponsor, che il più delle volte sono delle attività commerciali-industriali, oppure l’amministrazione comunale o fondi regionali ed europei, che però vorremmo evitare perché c’è il rischio che se non gradiscono il programma potrebbero negare o ridurre il finanziamento, come era accaduto a Milano nel 1993 con l’interruzione di Vivere con Cura al Ponte delle Gabelle, che ripartì poi molto ridimensionato e ‘addomesticato’. Ecco perché, a parte il far pagare una quota, anche se irrisoria, ai partecipanti (dieci euro a settimana), comunque non si riesce a coprire i 4000 euro, e la soluzione che più ha preso corpo, già dal primo anno, è quella di dedicare ogni settimana-corso a una donna o a un maschio - a partire dalle/dagli abitanti di Capracotta - che si sono distinti per il proprio amore per la natura o perché semplicemente parenti o amiche/i vogliono ravvivare la memoria dedicandole/gli appunto una settimana di iniziativa in suo nome. Con Vivere con Cura si vogliono ricordare le singole donne o pastori o boscaioli o artigiani o altri, il loro profilo e i relativi insegnamenti. A ogni parente o conoscente che desidera fare questo gesto chiediamo di tracciarne un profilo scritto o sottoforma di video per farne un archivio, scegliere l’argomento da trattare, essere presente, accogliere nella propria casa e seguire l’animatrice o animatore (o proporsi lei/lui stessa/o) e contribuire con almeno cento euro. Considerazioni sui primi cinque anni Invito prima di tutto a rileggere i programmi di questi primi cinque anni per rendersi conto della ricchezza e profondità di argomenti e la vita conviviale che si riaccende o addirittura esplode, in particolare come accade con l’animazione con le bambine/i. Purtroppo un 20% dei corsi è saltato per cause di forza maggiore. La partecipazione è stata spesso imprevedibile, ora affollata, ora meno, per tanti motivi. Sono venute molte persone a partecipare anche da regioni lontane e spesso a loro volta hanno promosso incontri di Vivere con Cura nelle loro realtà, attivando quelli che chiamiamo “gemellaggi eco-conviviali” con Capracotta, casa madre di Vivere con Cura, a cui si è affiancata Triora, il paese delle fate-streghe in Liguria, con la straordinaria coppia di ecologiste tedesche Karin e Rainer e le sorelle Cugge, che tramandano i saperi legati alla lavanda e alle piante aromatiche di montagna. I commenti di animatrici, animatori e partecipanti sono unanimi: piace il clima conviviale, non formale e a misura umana, in stretto rapporto con la meravigliosa natura di Capracotta e l’ospitalità e calore umano dei residenti. Senza dimenticare il gioiello dato dal Giardino di flora appenninica (e Flora era una dea dei Sanniti…). Al momento stiamo preparando il programma del 2008, ma nel frattempo desidero ringraziare tutte le animatrici e animatori di Vivere con Cura, Patrizia Rainone e l’attuale assessora comunale Maria D’Andrea, le autorità, le donne e gli abitanti di Capracotta, mia madre Peppina e infine anche il sottoscritto! Cari saluti e buon anno! Antonio torna a inizio pagina... |