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Il fine di una fine
di Michele Meomartino
L'uomo avverte la necessità di fissare qualcosa che non muoia, che non transiti nella pura fugacità di un destino effimero, come una frase scritta sulla sabbia o una parola dispersa nel vento. Questa forte volontà di affermazione della sua soggettività nel rompere la normalità, che segna tanta parte della sua vita quotidiana, la rintracciamo in certe sue opere in grado di incidere nel tempo e di allungare sul selciato le ombre di un gesto, capace di dilatare con la bellezza, la durata dei suoi atti. Per certi versi l'uomo è ossessionato dall'idea di eternità fino a spaventarlo perché è troppo oltre la sua umana comprensione. Al contrario, egli non accetta facilmente l'idea che tutto abbia una fine, che tutto ritorni polvere tra la polvere. Nella sua inesausta ricerca, tenta e si forza di capire, forse, si illude, ma vuole superare questa angoscia, questo dilemma sui destini ultimi, dando un senso alla sua vita e individuando un fine escatologico che disegni un orizzonte che va oltre l'inevitabile fine. Di qui la necessità di individuare idee e valori universali capaci di generare in lui solide certezze e sappiano infondergli ragioni sufficienti, motivazioni forti, per affrontare la vita con la giusta determinazione.

Poi, la riflessione sulla morte, il cui senso si lega a quello della vita in un intreccio inestricabile, ci introduce al mistero, in cui l'uomo sperimenta l'inadeguatezza dei suoi strumenti razionali per penetrarlo dall'interno, e quindi, l'affidarsi ad una fede, religiosa o laica, sembra l'unica scelta che gli rimane per andare oltre la vita stessa. A queste domande hanno tentato di dare delle risposte, lungo il corso dei millenni, non solo le religioni, ma anche, in misura minore, le filosofie. Ne è una prova la sterminata produzione culturale che è stata creata a cominciare dalle arti. Egli ha attinto a tutto il suo formidabile immaginario per descrivere questa tensione verso l'eternità, una ricerca dell'assoluto che si contrappone al nichilismo di chi ha perso ogni speranza e non crede più a nulla, ma vuole solo sprofondare nel non senso. Tra questi due poli, l'uomo, impasto di miserie e di grandezze, oscilla e naviga, a volte, avendo chiara la sua rotta, altre volte, al buio, lasciandosi trasportare dalla corrente delle onde.

Pur nelle differenze con cui si connotano le diverse tradizioni religiose, c'è un tratto che le accomuna, specie nell'architettura, dove, quasi tutte, sono dominate da una visione imperitura che non accetta l'inesorabile legge del tempo. I monasteri del buddismo, le cattedrali cristiane, le moschee islamiche, le sinagoghe ebraiche, ma anche le piramidi, la Tour Eiffel, i grattacieli di Manhattan, tutti svettano verso il cielo. Sono esempi di perfezione geometrica costruiti con materiali che vorrebbero sfidare i secoli. Eppure la sapienza bimillenaria del buddismo, attraverso la costruzione e distruzione del mandala, ricorda all'uomo che tutto è un'illusione, che tutto passa ed è impermanente, ma che tutto si trasforma anche se non ha la percezione di questa mutazione.

Ma l'uomo imparerà a convivere con i propri limiti, le proprie incoerenze, le sue ansie? Si comprenderà all'interno di un processo interattivo e processuale che si costruisce nel tempo e nello spazio? Immaginerà la sua vita come un segmento che si unisce agli altri o come un puzzle di un mosaico molto più ampio? Imparerà a soddisfare la sua sete di infinito rintracciandola nei gesti e nelle cose semplici a partire da quelle più piccole e all'apparenza insignificanti, senza avere la presunzione di vederla scritta a caratteri cubitali in opere mastodontiche? In questa ostentazione dello sfarzo e della pura estetica, spesso vuota e fine a se stessa, in cui si celebrano le sue manie di grandezza, un delirio di onnipotenza, quasi fossero semidei.

Ma ritornando agli aspetti interiori, penso che non si debba ancorare il risultato delle nostre azioni alle motivazioni che le sorreggono, se non nella misura in cui la verifica ci permette il loro grado di coerenza e di migliorare la loro efficacia. Spesso i risultati del lavoro svolto vengono premiati dopo la nostra vita, altre volte, si semina invano con risultati incerti se non deludenti. Quest'ultimi potrebbero fiaccare non poco le nostre motivazioni. Allora, la saggezza ci consiglia di non preoccuparci tanto degli esiti del nostro fare, per quanto importantissimi, ma un'azione va compiuta perché è giusta, perché in quel momento è la nostra dignità ad imporcelo, è il nostro senso di giustizia a chiedercelo, a prescindere da tutto, perché non sapremmo fare diversamente. Questo non ci impedirà di trovare delle modalità che mirino al massimo dell'efficacia senza entrare in paranoie in caso di insuccessi. Si chieda alla propria coscienza di fare il possibile, tutto il resto mi sembra crudele imporlo a se stessi tanto meno agli altri.


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